giovedì 10 gennaio 2013

La tentazione del paragone

Stavo ripensando a un paio di mattine fa, quando ho portato ET a fare il vaccino. Più precisamente, il richiamo dello Pneumococco.

Il centro vaccinazioni è un luogo antropologicamente interessante. Mentre aspetti che tuo figlio venga bucato come uno scolapasta, puoi osservarlo in contemporanea con altre decine di extraterrestri e fare la cosa più sbagliata del mondo, ma anche la più inevitabile: paragonarli.

Quando arriviamo, in sala d'attesa c'è una mamma molto giovane. Bellissimi capelli lunghi e scuri. Scarpe da ginnastica - un po' in sovrappeso - sorriso dolcissimo - marsupio Babybjorn - non è accompagnata da nessuno. Cinque elementi che me la rendono subito simpatica.

La sua bimba è al primo vaccino, ha poco meno di tre mesi. Si chiama Alice ed è vestita di rosa dalla testa ai piedi, cosa che in generale non amo granché. Ma sembra una bambolina di pezza, sonnecchia beata sul seno della madre. Penso: "allora gli angeli esistono". E' in quel momento che mio figlio decide di riportarmi coi piedi per terra, della serie tumadreseiunfilopiùsfigataiosonovittoriononaliceleièl'angeloioloscarrafone, e di attaccare con una delle sue parti migliori. Un pianto lagnoso, monotono, acuto. Ma mica ha fame, mica ha sonno. Così. Giusto per rompere un po' i maroni a tutti. Si calma solo per un paio di minuti, il tempo di prendere a mazzate un giochino della sala d'attesa: un cruscotto finto. Girare il volante non gli interessa, non ha senso. Meglio distruggerlo di mazzate.

Ovviamente sveglia la povera bimba, che da angelo vero qual è, dà un'occhiata bonaria al rompitore amatoriale di maroni, si interroga silenziosa, si gira dall'altra parte e continua a dormire. Santa creatura. Lì scatta il primo flebile istinto di madre snaturata, quello del paragone. Ma per evitare di perdere in partenza, mi racconto subito una bugia bianca: i due esseri in realtà non sono affiancabili. Lei è uno scricciolo ed è due mesi più piccola del mio scarrafone.

Mentre allontano dalla mia mente qualsiasi brutto pensiero sul come zittirlo, si affaccia nella stanza un'altra mamma. Sporge la testa, guarda un velocemente in giro, scannerizza la mamma dolce: parte dalle scarpe e arriva fino al mento. Ritira la testa come una tartaruga e un istante dopo fa ingresso spingendo la sua piccola astronave milionaria. Un ovetto ammobiliato. Sonagli, rivestimento di spugna con rifiniture di cotone. Portabicchiere. Borsa in tinta. Tasca con peluche.

E' lei. La mamma Napisan. Coda alta tiratissima. Leggings neri. Stivale in cuoio di Hermés con tacco basso. Piumino Moncler attillato. Borsetta-marsupio di Vuitton. Orecchini di perla. Sembra appena tornata da una battuta di caccia alla volpe. Dietro di lei emerge una ragazza filippina che tiene in braccio la fotocopia in piccolo della madre. Si chiama Diletta. Cinque mesi. Cicciona. Sembra perfino un maschio. Una sfidante perfetta.

Il caso vuole che la simpatica creatura afferri il gioco che Vittorio ha appena finito di tartassare. Faccio la vaga ma in realtà la sto aspettando al varco, pregando silenziosamente che non faccia ciò che temo. E invece lo fa. GIRA IL VOLANTE. Con una calma che non ho nemmeno io a trent'anni quando uso quello vero. Gira lo stramaledetto volante. E la madre le sussurra un sostenutissimo "brava, amore".

Mi vorrei sotterrare, ma non ho il tempo perché mi chiamano per bucare il sedere di quell'incapace di mio figlio che invece di girare i volanti li spacca come un cavernicolo.

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